di Rosarita Cipriani
“Mio caro Marco,
Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene… Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d’accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica e mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d’un uomo che s’inoltra negli anni ed è vicino a morire di un’idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male…. E’ difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l’occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m’è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell’anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. Ma, ormai, non credo più, come finge ancora Ermogene, nelle virtù prodigiose delle piante, nella dosatura precisa di quei sali minerali che è andato a procurarsi in Oriente… Perdono a questo mio fedele il suo tentativo di nascondermi la mia morte… Avrò in sorte d’essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura
Inizia cosi “Memorie di Adriano” di Margherita Yourcenar, un libro intenso che nel raccontare un Adriano imperatore sessantenne, malato e consapevole di non poter guarire, fotografa l’animo dell’uomo, qualunque egli sia, di fronte a quel decadimento del corpo che segna la fine del suo tempo terreno.Ho voluto evidenziare una frase di questo passo iniziale: sebbene molte cose siano cambiate nell’approccio medico dei nostri tempi, quella frase mi riporta prepotentemente alla memoria emozioni e riflessioni spese nelle ultime settimane di vita di mio padre.
Una polmonite con insufficienza respiratoria grave, ci ha costretto al ricovero in ospedale, convinti che si trattasse di un’infezione batterica in fase acuta e non della ulteriore evoluzione della sua malattia degenerativa, ma così non era. L’antibiotico terapia si è rivelata insufficiente, le sue vie aeree andavano ostruendosi ogni giorno di più: sono cominciate le broncoaspirazioni, è stata sospesa ogni forma di alimentazione orale, provvedendo al suo sostentamento per via endovenosa, con la prospettiva di passare alla nutrizione parenterale.
Ricordo di quel periodo la grande sofferenza,il senso di impotenza, di confusione, e non per la nascente consapevolezza che si fosse giunti alla fine, quanto per la condizione generale così indifferente rispetto alla dignità e alla riservatezza. Lunghe attese per poter parlare con un medico per avere poi valutazioni a volte confuse, così diverse e contrastanti tra loro da impedire qualsiasi scelta da parte di noi familiari. Stanzoni, freddi, con tre letti, pieni di estranei. Mentre mio padre consumava una delle sue più terribili crisi respiratorie, accanto a lui si levavano grandi risate, qualcun’altro mangiava della mortadella che gli era stata portata da casa riempendo la stanza di un odore che, se in altri momenti era appetitoso, lì diventava aggressivo, fastidioso, persino volgare.
Ma nella mia memoria emotiva è stampato indelebilmente un momento che stigmatizza l’inadeguatezza di un certo “fare”. E’ stato durante la visita del primario, il Professore, la cui presenza in corsia era incompatibile con quella dei familiari o degli assistenti personali. Dovevano uscire tutti, persino chi fino a quel momento era stato reputato necessario e richiesto. Una pletora di giovani medici entrava nella stanza e ogni individuo diventava un caso, una patologia con sintomi e decorso da descrivere e raccontare. Mio padre era lì,solo, inerme nel suo letto, indifeso di fronte ad un elenco di parolone che hanno il sapore di sentenze. E proprio mentre il Prof illustrava il caso di un vicino di letto ai suoi allievi, mio padre, in preda ad una nuova crisi respiratoria, soffocava, da solo, abbandonato alla sua paura e alla sua silenziosa angoscia, alla sua vulnerabilità. Alla presenza distratta e indifferente di tre medici e cinque laureandi. Quando sono rientrata nella stanza mi si è presentato davanti agli occhi il quadro della paura, del dolore e dell’impotenza. Insieme a quello dell’abbandono e dell’indifferenza. Non potrò cancellare dalla memoria quel suo sguardo prima della sua perdita di coscienza,del coma, gli occhi strabuzzati, la fronte imperlata di sudore, le labbra scure la sua immobilità e sullo sfondo gli assordanti commenti dei presenti in tutt’altro affaccendati e l’incuria dei camici bianchi. Eppure ci eravamo raccomandati: per rispetto a chi papà era stato, per rispetto alla sua vita fatta di impegno, dedizione e sacrificio, che non soffra, che possa lasciare il suo corpo sorridendo. Perchè oggi si può, la medicina può fare anche questo, assistere l’uomo nel suo passaggio, perché questo avvenga senza angoscia per sé e per i suoi cari: la medicina se non può curare, può dare conforto.
E invece, fino a quel momento, avevo avuto chiara la percezione che tutto ciò che veniva fatto avesse prevalentemente una logica difensiva prima che assistenziale, che fosse centrato non sulla persona ma sulla incolumità ” legale” del medico. Non sento di poter rimproverare tecnicamente nulla ai medici che hanno fatto tutto quanto previsto dai protocolli terapeutici , quanto piuttosto al sistema che li costringe ad operare in un certo modo , attenendosi ad un protocollo che non attiva quegli interventi “globali” mirati ad ‘accompagnare’ al fine vita, aiutando la persona e i suoi cari ad affrontare questo momento con dignità; alla struttura non idonea alle esigenze sia del malato che dei suoi familiari, esigenze che, in certi momenti, sono più umane che sanitarie. Non perchè la vecchiaia è il tempo della vita fisiologicamente più vicino alla morte che si debba smettere di pensare all’anziano come una persona, con una sua storia, una sua dignità e un bagaglio di emozioni troppo inascoltate: né è umano far sì che lasci la vita, in un groviglio di tubicini, le braccia ferite da aghi e ago cannule che fanno di lui più una macchina che un essere umano.
Credo, piuttosto, che il sistema, e per ricaduta anche noi cittadini, spesso sottovaluti come in questi momenti il poter “stare con ” faccia la differenza sia per chi ci sta lasciando che per chi rimane; quanto sia più importante rispetto a delle cure che ormai non hanno più efficacia, mettere le persone nella condizione di godere di una vicinanza intima alleviata dal dolore fisico. Avere un luogo e uno spazio privato, riservato nel quale affrontare e riuscire a superare, aiutati da personale specializzato, il timore e l’imbarazzo di un reverenziale silenzio, del non sapere che cosa dire ( anche perchè ci si sente in una situazione pubblica, non intima), rappresenterebbe l’opportunità per sintonizzarsi su paure e stati d’animo che molte volte sono simili e che, diventando condivisibili, creano profonda intimità e vicinanza e calore. Spesso, invece, si è costretti a parlare di cose generiche o a non parlare affatto, a volte per paura, altre per la presenza di troppi estranei o di situazioni estranianti, perdendo in tal modo un’occasione preziosa per salutarsi e trasmettersi un’eredità morale, esperienziale e spirituale. Inoltre, può accadere che lo stesso ambiente ospedaliero,così medicalizzato, ci porti ad assumere, rispetto alle prescrizioni ricevute, atteggiamenti spesso di eccessiva rigidità e apprensione che, nella fase finale di un decorso, sono inutili e impediscono di condividere piccoli momenti di piacere , come esaudire un innocuo desiderio trasgressivo …uno cioccolatino, un bicchiere di vino, la pietanza preferita.
Ho provato tutto questo in termini di mancanza. Negli ultimi giorni di vita di papà ho mille volte rimproverato a me stessa di averlo portato in ospedale, ho mille volte fantasticato su una struttura che fosse a metà tra una casa e un ospedale, dove tutto ciò che sentivo mancare fosse possibile. Finché non ho incontrato una giovane dottoressa che si è davvero presa cura non solo della sofferenza fisica di papà, ma anche di tutti noi, dei nostri sentimenti, delle nostre paure, del nostro legame affettivo verso papà, del nostro dolore per il distacco, perché fossimo capaci di stare accanto a lui nel migliore dei modi, con animo sereno. Ha voluto che le raccontassimo la storia della vita di papà, cosa fosse per lui più importante e cosa lo fosse per noi in quel momento. Mai una volta ci siamo sentiti da lei giudicati o ridicolizzati per il nostro desiderio di vicinanza, per le premure che avevamo verso quell’uomo di 89 anni che rappresentava tutto il nostro mondo e la nostra vita. E’ stata lei a rendere più lieve quel momento: da che abbiamo incrociato la sua strada, tutto è sembrato cambiare. Non smetterò mai di ringraziare la dottoressa Maria Rita Lombrano per avermi fatto capire che esiste un altro modo di accogliere e accompagnare la morte dei nostri cari. E che questo modo è strettamente connesso al senso della vita
Papà se ne è andato senza dolore, mano nella mano, dopo aver avuto tempo e modo di salutare ognuno di noi, di regalarci sorrisi e parole affettuose e di trovare nei nostri occhi lacrime di serenità e gratitudine.
Ripenso continuamente a quegli ultimi giorni e sento che in me c’è ancora qualcosa di irrisolto, qualcosa che non placa il mio doloroso senso di smarrimento. Credo accada a tutti di sentirsi smarriti di fronte alla morte, e non solo per l’evento in sé ma forse perché abbiamo dimenticato il modo di vivere la morte. Sì, perchè essa va vissuta affinché possa essere elaborata e accettata, per fare sì che non si trasformi in un peso psichico giornaliero che ci accompagna per tutta la vita.
Ci hanno insegnato a fuggire, a pensare ad altro, ad allontanare il prima possibile il pensiero della morte di un caro così come il suo corpo, a trattenere il dolore e a passare oltre. Mi rendo conto solo ora di non aver avuto il coraggio di chiedere a papà che cosa provasse, quali fossero le sue paure o le sue speranze, perdendo l’occasione di vivere un momento di impareggiabile intimità, entrando in contatto con la sua anima per accompagnarla nei suoi ultimi tempi di fusione con il corpo. Capisco solo ora di aver vissuto come una violazione e una grande privazione il non aver potuto abbracciare il corpo di papà appena spirato, l’essere stata allontanata da lui per dare spazio a tutti gli accertamenti ; come pure che l’ultima sua cura e la vestizione del suo corpo sia stata delegata ad estranei.E’ stata una intimità interrotta, come se si fosse persa la sacralità che quel corpo per me aveva. E così, come è accaduto a me, per nostra volontà o per scelta imposta, non viviamo più la morte. Allontanandoci o lasciandoci allontanare, senza che ce ne accorgiamo, ci mettiamo nella condizione di non lasciare andare qualcuno che ci ha lasciati, non accettando perdiamo anche quell’unico contatto che è oltre la fisicità. Perdendo quei riti che ci permettono di vivere la morte, nella routine frettolosa di pratiche espletate da altri, noi trasformiamo la morte in un tabù, in un nemico invincibile che ci priva dell’oggetto dei nostri sentimenti, della possibilità di esprimerli e viverli; e così ci dimentichiamo che è solo dal corpo che ci separiamo, mentre tutto il resto rimane con noi e sta a noi dargli dignità.
Ho deciso, così, che compirò a distanza di cinque mesi, il mio rito personale e privato per ritrovare e salutare mio padre, un rito che sia comunque un inno alla vita di cui la morte è parte ineludibile. Vorrei anche attivamente sostenere chi si sta adoperando perchè nella nostra città vengano messe a disposizione risorse ed intenzioni per creare strutture che siano a metà tra una casa e un ospedale, dove dignitosamente le cure si trasformino in assistenza e non in freddo accanimento e tecnicismo, e dove malati e familiari siano accompagnati, nel rispetto delle proprie credenze e valori, in quel viaggio finale. In altre regioni di Italia ne sono già sorte.
Un ultimo pensiero a chi, come me , sta affrontando la perdita di una persona cara: non abbiate paura, non abbiate paura del vostro dolore né di vedere quel corpo spogliato del calore della vita. Abbracciatelo, vi è familiare,è da lui che vi separate, non dall’essenza del vostro caro. Abbracciatelo intimamente e senza timore come ci si abbraccia per un saluto, un congedo, serenamente, con lacrime di commozione e piene di amore e speranza, e lasciatelo andare, ascoltando l’eco di questi versi del grande Gibran:
Allora Almitra parlò dicendo: Ora vorremmo chiederti della Morte.
E lui disse:
Voi vorreste conoscere il segreto della morte.
ma come potrete scoprirlo se non cercandolo nel cuore della vita?
Il gufo, i cui occhi notturni sono ciechi al giorno, non può svelare il mistero della luce.
Se davvero volete conoscere lo spirito della morte, spalancate il vostro cuore al corpo della vita.
poiché la vita e la morte sono una cosa sola, come una sola cosa sono il fiume e il mare.Nella profondità dei vostri desideri e speranze, sta la vostra muta conoscenza di ciò che è oltre la vita;
E come i semi sognano sotto la neve, il vostro cuore sogna la primavera.
confidate nei sogni, poiché in essi si cela la porta dell’eternità.
La vostra paura della morte non è che il tremito del pastore davanti al re che posa la mano su di lui in segno di onore.
In questo suo fremere, il pastore non è forse pieno di gioia poiché porterà l’impronta regale?
E tuttavia non è forse maggiormente assillato dal suo tremito?Che cos’è morire, se non stare nudi nel vento e disciogliersi al sole?
E che cos’è emettere l’estremo respiro se non liberarlo dal suo incessante fluire, così che possa risorgere e spaziare libero alla ricerca di Dio?
Solo se berrete al fiume del silenzio, potrete davvero cantare.
E quando avrete raggiunto la vetta del monte, allora incomincerete a salire.
E quando la terra esigerà il vostro corpo, allora danzerete realmente.Kahlil Gibran